Andrea Camilleri. © DR

 

 

La lingua di Camilleri

Lo scrittore siciliano non scriveva in italiano, e neanche in dialetto,
la sua lingua è piuttosto un idioletto.

di Marina Gasperini

Celebriamo quest’anno i cento anni dalla nascita di Andrea Camilleri, autore siciliano di fama internazionale, arrivato alla scrittura dopo una lunga carriera da produttore televisivo. Camilleri ha scritto più cento libri, tra romanzi e raccolte di racconti, ma è soprattutto la serie dedicata alle indagini del commissario Montalbano che gli è valsa la riconoscenza internazionale e le innumerevoli traduzioni, più di trenta.

Eppure tradurre Camilleri è impresa ardua, perché la sua lingua di scrittura non è l’taliano, ma neanche il dialetto, è piuttosto un idioletto, cioè un uso particolare del sistema linguistico dialettale.

Camilleri ha ricordato che suo padre lo aveva esortato a scrivere le sue storie come le raccontava. L’amico Sciascia, invece gli aveva consigliato l’italiano, più atto ad esprimere concetti. Sull’uso della lingua nazionale o del dialetto, si era espresso anche Pirandello, il quale sosteneva che l’italiano è la lingua della ragione e il dialetto la lingua del cuore.

Secondo l’eminente linguista Tullio De Mauro però, l’uso del dialetto, puro o ibridato che sia, non ha solo una valenza affettiva ed emotiva, ma anche più largamente politica e culturale e a dimostrazione racconta che quando si trovava in Sicilia, durante i pranzi, i suoi ospiti si esprimevano in italiano ma, non appena la discussione diventava più accesa, il che succedeva spesso con Sciascia, improvvisamente passavano al dialetto, perché “a Palermo come a Venezia, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto, lo slittamento verso il dialetto in questo caso non è emotivo”.

Camilleri, per conto suo, rivendica l’uso del dialetto come arricchimento della lingua nazionale: “Se l’albero è la lingua, i dialetti sono stati nel tempo la linfa di questo albero. E penso che la perdita dei dialetti sia un danno anche per l’albero”.

Il creatore di Montalbano ha confessato che il suo dialetto siciliano inventato nacque nella sua testa in una notte solitaria, quando un po’ brillo, a Piazza Pretoria, a Palermo, ebbe l’impressione che le statue della fontana si mettessero a ballare al ritmo della sua musica preferita, il jazz.

Fu in quel momento che sentii salire dentro di me la decisione. Avrei inventato un mio linguaggio, tramite il quale avrei scritto le storie che volevo raccontare. Mi resi conto che sarebbe stato un linguaggio che aveva a che fare con la musica, il ballo, il ritmo. Sarebbe stato fatto di parole, ma la sua vera natura sarebbe stata musica, poesia, sentimento”.

In effetti, la lingua di Camilleri, nata a suon di jazz, produce sonorità comprensibili da tutti, senza il supporto del glossario di quattro pagine, che si trova nel web, perché produce sensazioni, arriva al cuore e attraverso questo al cervelli. E’ il mistero della musica. Ecco perché la lingua è, e dev’essre, suono.

De Mauro, rivolgendosi a Camilleri, durante un loro incontro a due, dichiarò: “Credo che non si debba mai dimenticare che anche il suono della lingua è importante. L’onda della parola si apprezza solo leggendo ad alta voce. Le parole sono suono e il suono, anche di una singola parola, ci affascina, ci avvolge. E c’è il significato, come c’è il ritmo del testo. I tuoi racconti e romanzi sono un esempio in questo senso, se ne percepisce l’andamento musicale”.

Camilleri non poteva che essere d’accordo e, a conferma, disse: “Io rileggo sempre quello che scrivo ad alta voce, Devo sentirlo scorrere, e appena questo fluire del racconto s’intoppa, capisco che devo riscrivere quel punto, perché lì, in quel punto preciso manca il ritmo. Il mio modo di scrivere obbedisce a certe leggi, a certe pause, a certe accelerazoioni o ralenti che io sento dentro di me. E’ questo alternarsi di ritmi all’interno di un romanzo che fa quello che io chiamo il respiro del romanzo

Ad esemplificare questo discorso, prendiamo l’incipit de Il giro di boia, Sellerio, 2003: “Nuttata fitusa, ‘nfame, tutta un arramazzarsi , un votati e rivotati, un addrumisciti e un arrisbigliati, un susiti e un curcati”.

Non è facile da capire, per chi non conosca il siciliano, ma leggendolo ad alta voce, si avverte il ritmo di una una notte agitata, le consonanti doppie, dure, le “u”, che trafiggono, la punteggiatura, riproducono quasi onomatopeicamente i tormenti dell’insonnia.

Per la sua espressività, si puo’ avvicinare la lingua di Camilleri alla tradizione dei grammelot, linguaggio di fantasia utilizzato a teatro, che unisce a parole inventate suoni, onomatopee e mimiche diverse, al fine di comunicare al di là del verbo.

L’italiano è utilizzato, ma solo nei rari contesti formali, altrimenti serve da base alla creazione di parole, con combinazioni svariate con il vocalismo italiano, per esempio “bastato” diventa “abbastatu”. Altre volte, è la parola italiana a prendere una caratteristica di quella siciliana, come matina invece di mattina. I termini siciliani puri sono pochi, anche se costanti

Il “camilleriano”, nelle sue ibridazioni, puramente letterarie e senza nessun riscontro nel parlato reale, sucita nel lettore una riflessione che va al di là dell’adesione sentimentale, creando una particolare complicità, che aiuta a decifrare la lingua e incita a comprendere l’animo siciliano, senza preconcetti.

La destigmatizzazione della lingua e la valorizzazione dell’identità culturale hanno riacceso l’interesse per la nostra isola più grande e diffuso messaggi di tolleranza e rispetto dell’altro, del diverso. Ecco perché noi tutti, siciliani e non, abbiamo un grande debito di riconoscenza verso Andrea Camilleri.

Lo abbiamo letto, lo leggiamo ancora e lo rileggeremo, perché, come diceva Calvino, ogni rilettura è una scoperta .